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L’intervista di You Socialist a Paolo Romano, Assessore Municipio 8, Milano.

“Perché fai politica?”. Penso sia la domanda che mi sia stata posta più spesso in questi 10 anni. Come se essere giovane e credere nella politica sia un paradosso inspiegabile e quasi controintuitivo. A sedici anni come a ventisei, la risposta breve è la stessa:

“Faccio politica perché voglio cambiare il mondo, perché non sopporto l’ingiustizia, perché non è possibile che le cose non possano essere meglio di così.”

La risposta lunga invece, è cambiata tanto. Ho imparato che fare politica, farla davvero, dal basso, richiede alcuni sforzi che vanno in direzione ostinata e contraria al mondo che ci circonda.

Richiede, innanzitutto, di mettere la comunità davanti al singolo, il noi davanti all’io: tutto il contrario rispetto al culto della personalità e alla narrazione social-dipendente di oggi, dell’influencer e dell’artista che “ce l’ha fatta” e degli altri che rimangono indietro. E richiede fatica e studio: l’opposto della semplificazione, dei 140 caratteri senza contenuto, delle due righe su WhatsApp. Ma più di ogni altra cosa, fare politica richiede di non cedere all’indifferenza e all’apatia, a quel maledetto meccanismo per il quale a furia di rivedere davanti agli occhi dieci, cento, mille volte l’ingiustizia, smettiamo di riconoscerla come un problema e iniziamo a darla per scontato.

Eppure, nonostante l’individualismo, la dittatura del like e del presente, la semplificazione, la mia generazione resiste e risale la corrente: sì perché i giovani, in Italia, fanno politica. È la politica che non fa proprio per noi.

Certo siamo disincantati, a volte delusi ancor prima di partire (e questa cosa ce la dobbiamo togliere). Certo c’è anche chi so è accomodato piacevolmente al tavolo del “fa tutto schifo, è un magna magna, colpa della politica”, insieme ad un bel pezzo delle generazioni precedenti. Ma siamo anche la generazione delle battaglie per il lavoro e delle dimissioni di massa, del femminismo intersezionale, della lotta al cambiamento climatico, della difesa strenua del diritto allo studio. La generazione che ti guarda in faccia per ciò che pensi, e non per il colore della tua pelle, la tua identità di genere o il tuo orientamento sessuale.

Foto paolo romano

Semplicemente, nell’inconsistenza di istituzioni che non riescono a cambiare tangibilmente la società e rimangono ferme al secolo scorso, la mia generazione si è spostata.

Dalle piazze organizzate dei corpi intermedi in crisi, a quelle auto-organizzate per il clima, l’uguaglianza, la questione di genere. Dalle “sezioni dei partiti” alle sedi delle associazioni, che spesso a livello locale riescono a cambiare la vita delle persone molto più che la politica. Tutto questo i media e il mondo “adulto” sembra non vederlo. Un po’ perché siamo, numericamente, pochi (e quindi contiamo ancora meno), un po’ perché vince la narrazione paternalista e “amarcord” dei 50-60enni che ci tengono ogni giorno a dirci: che ai loro tempi era meglio, che si faceva questo e quello, e che noi dovremmo fare così e colà. Ai loro tempi, quelli in cui abbiamo bruciato il futuro del paese a botte di debito pubblico, creato il sistema politico corruttivo più grande d’Europa, e lasciato in eredità un paese retrogrado e basato sul patriarcato, la cultura imprenditoriale tossica, l’automobile e le morti sul lavoro. Contenti loro. Evidentemente in quegli anni erano sulla luna a fare ricerca, e ci sarà stata qui una razza aliena a creare tutti questi disastri: altrimenti questo senso di superiorità, sinceramente, proprio non si spiega.

La nostra generazione è la più formata della storia repubblicana, ma al contempo quella con meno risorse economiche, situazioni familiari più disastrate, maggior precarietà e pessime prospettive future. E i nostri “padri”, oltre a raccontarci dall’alto di uno scranno cosa dovremmo fare, ci hanno abbandonati: si alzano le pensioni ma ti pagano 500 euro al mese in stage, studiamo ancora a scuola cosa sia la “tower del computer” ma non sia mai che si apprendano competenze digitali, finanziarie, si faccia educazione sessuale (tabù!).

Allora la domanda non è più “perché fai politica?”, la domanda diventa: “Nel paese del paternalismo senza padri, serve ancora fare politica?”.

Beh io, noi pensiamo di sì. Pensiamo che serva più che mai, e che serva digerire la giusta rabbia che abbiamo in corpo e costruire un patto generazionale con quel pezzo di “padri” che a cambiare le cose ci hanno provato e oggi sono disposti ad ascoltarci, unendo la loro esperienza alla nostra visione del reale. Penso che serva perché se non pensiamo noi ad una vera riforma della scuola, a passi concreti per la rivoluzione verde, a ricostruire un mondo del lavoro che tuteli e valorizzi chi ci entra, a dare cittadinanza alla salute mentale, a proporre innovazione, non ci sarà nessuno a farlo per noi. E quindi anche se siamo pochi, in parte demotivati, e continuamente bombardati dalla narrazione svilente dei bamboccioni e degli sdraiati, anche se vorremmo solo girarci e tirare un cazzotto in bocca al prossimo commentatore tv che seduto a gambe in crociate in un vestito di filo di scozia parla della nostra pigrizia, prendiamo un bel respiro. Prepariamoci alla diffidenza di tutti, l’apatia di molti e l’entusiasmo solo di qualcuno. Guardiamoci in faccia, che a volte fa bene, e continuiamo a fare politica.

Che c’è tutto il mondo da cambiare, controcorrente.

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1 comment

  1. […] la prima domanda è la stessa che abbiamo fatto a Paolo. Perché fai […]

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