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Una storia di non omologazione e autonomia. Monica J Romano.

Di Francesco Codagnone.

La sua storia ha la bellezza della non omologazione e dell’autonomia di pensiero come atto di volontà e consapevolezza. La bellezza del coraggio di sfidare l’immaginario collettivo legato all’identità transgenere e alla non conformità di genere. Un immaginario che la vorrebbe in punta di piedi, al margine, alla periferia sociale – soprattutto in silenzio, senza voce. Monica J. Romano è scrittrice, attivista, è la prima donna transgender eletta consigliera Comunale a Milano, e vicepresidente della commissione Pari opportunità e diritti civili. Monica  J. Romano è la prima, e da Palazzo Marino porta avanti le istanze che fino a poco fa raccoglieva e promuoveva da esterna alle istituzioni: una voce per tutti e tutte, una voce per chi fino a qualche anno fa una voce non l’aveva. Monica J. Romano è la prima.

Perché il momento è adesso.

Oggi, in una società che ci vuole sempre più divisi, è importante discernere tra diritto e privilegio: non tuttə godono degli stessi diritti, ed è qui che nasce il privilegio. Eppure, pur nell’importanza del preservare le specificità, non è più possibile pensare a una minoranza come isolata dalle altre: il genere, ad esempio, è una categoria inevitabilmente interconnessa ad altre categorie sociali come l’etnia e la classe. È corretto dire che la lotta deve essere lotta comune?

I diritti devono essere sempre diritti di tutti, tutte e tuttə. L’impostazione politica della Commissione Pari opportunità del Comune di Milano, di cui io sono vicepresidente, è improntata sull’intersezionalità. Lavoriamo per i diritti delle donne, per una loro presa di coscienza ancora necessaria, perché siano soggette di diritto, ma questo lavoro si deve accompagnare ad un lavoro per i diritti della comunità LGBTQAI+, delle minoranze etniche, dei migranti, delle persone con disabilità, delle persone anziane. In un periodo storico in cui la neoministra alle Pari opportunità dice che «si occuperà solo delle donne», che «l’ombrello deve restringersi», dobbiamo agire in direzione opposta, e l’ombrello, semmai, lo allarghiamo sempre più. I diritti sono diritti solo se sono di tutti e tutte. In altre parole, “intersezionalità” deve essere sinonimo di “alleanza”.

Le minoranze sociali devono essere dunque alleate, poiché un diritto è tale solo se è di tuttə, altrimenti è privilegio. Dobbiamo batterci per i nostri diritti. Dobbiamo batterci anche contro ilprivilegio?

Il “nemico” non è il privilegio, ossia l’uomo, in sé. Il nemico è il patriarcato pubblico.  Il patriarcato, così come le categorie di genere, è limitante per tutti, limita gli stessi uomini. Metterlo in discussione e decostruirlo significa ammettere che, oggi, chi non è uomo, cisgender, bianco, eterosessuale, cattolico e appartenente ad una classe borghese, si scontra col diritto. C’è una minoranza della popolazione che è fortemente privilegiata, e una larga maggioranza che è discriminata. Il maschile, nella nostra società, è spacciato per neutro, il femminile per subalterno: mettere in discussione il patriarcato significa mettere in discussione una società intera.

Il patriarcato pubblico parla di noi, della nostra storia e della nostra cultura, parla di donne e di uomini, delle nostre leggi, dei nostri costumi, dei nostri pregiudizi, di come questi intacchino il nostro modo di pensare, parlare, la nostra affettività e sessualità. Il 2022 ha registrato circa un femminicidio ogni tre giorni, e negli ultimi tre anni i casi sembrano essere aumentati tragicamente.

La pandemia ha sicuramente avuto un ruolo in questo fenomeno. A perdere il lavoro, durante la pandemia, sono state soprattutto le donne. E più la donna perde la sua autonomia, più è segregata alla condizione famigliare, più è esposta alla violenza, verbale e soprattutto fisica.  Molte donne hanno vissuto il lockdown, e poi il periodo di disoccupazione, nella stessa casa del loro aguzzino, senza possibilità di allontanarsi e senza sostegno o aiuto. Ricordiamo difatti che la maggior parte delle violenze ai danni delle donne sono consumate da parte dei mariti, partner o ex all’interno delle mura domestiche. La maggior parte dei femminicidi è commessa da persone vicine alla vittima, all’interno del nucleo famigliare, e le limitazioni sociali sono state terreno fertile per questo tipo di violenze. Discorso analogo vale per gli episodi di omolesbobitransfobia: durante la pandemia, molte persone LGBTQAI+ si sono trovate costrette a convivere con persone che non le accettavano. La casa dovrebbe essere il nostro luogo sicuro, ma per molte donne – e per molte persone LGBTQAI+ – è esattamente il contrario: la casa può essere il luogo della paura, prima attesa e poi vissuta. E, in alcuni casi, della morte.

Il 20 novembre è il Transgender Day of Remembrance (TDOR), in ricordo delle vittime di transfobia. Ma sarà anche il giorno della prima marcia a Milano organizzata dalle associazioni transgender, l’Associazione per la cultura e l’etica transgenere e Sportello trans di Ala Milano. Perché, il momento è adesso?

Perché le vite delle persone trans* contano. E che la comunità trans* è ormai in grado di organizzare un corteo e portare la gente in piazza. Non siamo più, solo, vittime. Siamo cittadinə che pagano le tasse, hanno una cultura, e rivendicano pari diritti e dignità.

Sfileremo il 20 novembre, ma sfileremo anche il 25 novembre, la Giornata contro la violenza sulle donne. Sfileremo insieme, unite, e leveremo la nostra voce. Porteremo dei numeri, che sono realtà, i dati che ci relegano, ricordando che le due giornate sono intimamente connesse: andando a vedere i numeri, il terribile elenco delle vittime donne di quest’anno – di ogni anno – vedremo che la maggior parte delle vittime sono donne trans*. Donne sociali, che vivono nella società, come lo sono io. Il problema è il femminile, mi verrebbe da dire che tutto quello che non è maschile o eterosessuale, oggi, subisce violenza. E i numeri lo affermano con tragica chiarezza.

(l’intervista è stata fatta pochi giorni prima del 20-11 per riascoltare il discorso di Romano > Qui )

Monica J Romano
Monica J Romano

Parlando di numeri, nel 2022 ci sono state 381 persone vittime di transfobia in tutto il mondo. In media, più di una persona trans al giorno perde la vita per cause non naturali. Il 95% di coloro che sono state uccise globalmente erano donne trans o persone trans* femminili. Il 65% nere o facente parte di un altro gruppo razzializzato. Metà delle persone trans* la cui occupazione è nota erano sex workers. Sono numeri drammatici, e se da una parte nel mondo si diffonde sempre più consapevolezza, dall’altro le vittime di transfobia aumentano: negli ultimi tre anni c’è stato un aumento dell’8%. Perché?

Rispetto alle persone transgender c’è un fattore ulteriore: la comunità trans* sta chiedendo sempre più spazio nella società. Le persone trans* hanno acquistato una maggiore consapevolezza, sempre più spesso fanno coming out. Se, quand’ero giovane, le persone trans* italiane trovavano delle barriere invalicabili soprattutto sull’ingresso nel mondo del lavoro, oggi possono arrivare a ricoprire posizioni pubbliche e di responsabilità che fino a qualche anno fa erano loro precluse: sui social, in televisione, in politica. La tematica trans* ha più spazio, più risonanza: c’è più interesse, anche al di fuori della comunità. Interesse che spesso è positivo, molto spesso negativo. Noi diamo fastidio. Andiamo bene fintantoché stiamo da parte, al nostro posto – e il nostro posto è il margine, quando va bene. E quindi, come da sempre nella storia, più una minoranza acquista visibilità, più questa è soggetta a violenza, verbale e fisica: è accaduto alle donne, è accaduto alle persone non bianche, agli omosessuali, oggi accade alla comunità transgender: la nostra esistenza è fastidiosa, la nostra voce pericolosa. Il transicidio è solo la punta dell’iceberg, in un certo senso: basta fare un giro online per capire quanto il linguaggio d’odio transfobico stia aumentando, e sia sempre più tollerato. Si vorrebbe che le persone trans* non parlino più dei temi che le riguardino. Come a dire: fate quello che vi pare, ma fatelo a casa vostra. La nostra casa, però, è nella società. E questo ci dà potere, ma ci rende esposte.

Capita spesso che la variabile transfobica non venga riconosciuta neanche quando si parla di episodi gravi come un omicidio, meglio, femminicidio: spesso perché i giornalisti inquadrano la notizia nei termini del degrado e della prostituzione. Nell’episodio di violenza, si tende quasi ad eclissare il colpevole dalla storia, e si interpreta il rischio che “l’essere trans*” comporta, quasi una giustificazione per una violenza. Una volta attribuita la colpa alla persona trans*, il vero colpevole viene normalizzato, non fa notizia, diventa routine. Uno spiacevole equivoco. Ci si aspetta che queste cose accadano. 

I media hanno una responsabilità enorme, tanto nei confronti delle donne quanto della comunità LGBTQAI+, e in generale nei confronti di ogni minoranza sociale. Il linguaggio può veicolare stereotipi e pregiudizi molto forti. Prendiamo il caso dei media che, parlando di persone trans*, fanno misgendering (usando pronomi non conformi all’identità della persona) o deadnaming (utilizzando il nome all’anagrafe, che può non concedere con quello d’elezione). Se chiami dieci, quindici volte in un articolo una donna trans* “lui”, alla fine nessuno la prenderà sul serio, ma anzi contribuirà a far sembrare le persone trans losche e meschine, e a giustificare il pregiudizio e la violenza nei loro confronti. Oppure, consideriamo il caso in cui nei titoli di giornale si parla di identità, orientamento sessuale e genere anche quando non necessario: chiediamoci se la notizia sarebbe stata altrettanto valida senza quella specificazione. 

Il linguaggio traduce la volontà politica in atti. Lo si vede anche al contrario: ogni volta che si prova a portare avanti un discorso sulla necessità di un linguaggio più inclusivo, la risposta è spesso diffidente, quando non violenta. “Non si può più dir niente”: lo avvertono come un attacco alla loro libertà. Di quale libertà si parla, però? La libertà di discriminarci, umiliarci, odiarci e, in ultimo, ucciderci? Semmai, il linguaggio inclusivo è per la nostra libertà. 

Se vogliamo combattere forme di discriminazione, c’è bisogno che si utilizzi un linguaggio rispettoso e includente delle persone LGBTQAI+, che non fiancheggi una società eterosessista, maschilista e discriminante. Per questo è necessaria una continua formazione per mettere in guardia dai rischi di un cattivo uso delle parole e delle immagini e indichi la via per un’informazione corretta sui temi LGBTQAI+: perché ci sia responsabilità e coscienza nel chi fa informazione, consapevole che dalle loro parole, dipenderà il modo in cui la comunità LGBTQAI+, la sua identità, dignità, affettività, verrà o meno presa in considerazione. 

Non è possibile quindi considerare un problema di discriminazione una violenza che, anziché venire riconosciuta come tale, viene trattata alla stregua di un pettegolezzo e con toni da giornale scandalistico. La politica si disinteressa alle questioni trans*, della questione LGBTQAI+, perché le ritiene minoritarie e l’attenzione mediatica nazionale rispecchia i temi trattati dalla politica. Se le parole non solo descrivono ma creano la realtà, che tipo di realtà hanno creato per la comunità trans*?

Nel corso degli anni le persone trans* sono state oggetto di un processo di invisibilizzazione e deumanizazzione: più uscivano allo scoperto, più richiedevano spazi a lungo negati ma che – giustamente – spettavano loro, più sono state relegate al margine, alla periferia sociale. Tanto che le persone cis spesso pensano che le persone trans* sono delle “non-persone”. Senza un volto, un’identità e una storia, sicuramente senza opinioni. La narrativa adottata, nel parlare di persone trans*, e spesso inquadrata in un contesto di degrado, povertà, violenza, prostituzione e dunque meschinità. La persona trans* è dunque vista come non affidabile, non sincera, instabile e spesso volubile – quando non perversa. Dunque, è ridotta, unicamente, al suo corpo non conforme – e sessualizzato – smettendo di avere una propria identità

Il modo in cui (non) si parla delle persone trans* dopo la morte è speculare a come (non) si parla di loro mentre sono in vita. E viceversa: la vita delle persone trans* non viene presa in considerazione perché di loro o si parla male, o non si parla proprio. Qual è lo spazio sociale delle persone trans*?

Le persone trans*, in quanto considerate “non-persone”, non hanno spazio. Quando si organizzano manifestazioni o eventi che riguardano più o meno da vicino la tematica transgender, sono spesso invitati a parlare esperti, psicologici o psichiatri, responsabili di centri endocrinologi, avvocati o esperti di diritto, con un tratto comune: sono sempre persone cisgender. Le persone non trans* che sono legittimate a esprimersi sulle nostre vite e sul nostro sentire, come del resto è sempre accaduto per altre minoranze sociali: gli uomini si sono sempre espressi in merito ai diritti delle donne, ad esempio, e lo fanno tuttora. Nello stesso dibattito che ha preceduto l’affossamento del Dll Zan è stato portato avanti da persone non appartenenti alla comunità LGBTQAI+, con eccezione di poche figure come, appunto, Alessandro Zan o Vladimir Luxuria. Questo non significa che le persone che non fanno parte della comunità non posso sostenerla, o che gli uomini non possano battersi per i diritti delle donne, e così via: come dicevo, la lotta deve essere intersezionale. Ma noi abbiamo una nostra voce, e non possiamo essere fuori dalla conversazione se questa riguarda la nostra vita.

Eppure, oggi la comunità transgender, la comunità LGBTQAI+, sembra acquisire nuovi e inediti spazi all’interno della società. Questo perché l’informazione non è più limitata ai media generalisti, che procedono di pari passo al clima politico, e viceversa. Oggi esistono nuovi media, i social, che sono accessibili con tempi e spazi diversi e potenzialmente illimitati. In altre parole: oggi possiamo parlare di quello che ci va.  E a noi va di parlare proprio di questo. Quale ruolo hanno avuto i social perché la comunità LGBTQAI+?

I social hanno un ruolo principale nell’attivismo moderno, in un certo senso hanno trasformato il modo di fare attivismo. Io ho iniziato a fare attivismo da ragazza, nel 1998. All’epoca pensavo che l’interesse per la nostra causa sarebbe durato poco, destinato a spegnersi nel giro di qualche anno. Questo perché gli spazi a disposizione erano pochi, se non assenti: è sempre stato un braccio di ferro con i media generalisti, la televisione soprattutto, per avere attenzione e palchi dai quali parlare e portare avanti le nostre istanze. Basti pensare che, all’epoca, per parlare della comunità LGBTQAI+ in televisione dovevi aspettare la seconda serata, quando ti andava bene. Avevi la possibilità di rivolgerti a un pubblico molto ristretto, e al contempo si alimentava l’idea di questi argomenti con un tabù, di cui si doveva parlare con estrema cautela, appunto solo a persone adulte e in uno spazio circoscritto.

Poi sono arrivati i social, che hanno cambiato tutto. Adesso chi fa attivismo può postare contenuti in modo personale, immediato, in qualsiasi momento, e iniziare una conversazione che coinvolge sempre più persone: del resto l’attivismo si poggia sulla comunicazione e il confronto. Non dobbiamo più aspettare, e sperare, che ci vengano concessi spazi: gli spazi per parlare possiamo prenderceli da sole, in qualsiasi momento. L’immaginario collettivo si è spostato nel tempo. Alla fine degli anni Novanta era impossibile parlare di transessualità senza incappare nel concetto di prostituzione, scenario molto penalizzante. Oggi sono passati più di vent’anni, e non invano. Anche le persone apparentemente più distanti iniziano a familiarizzare con questi temi, questo grazie anche all’informazione più divulgativa.

Non solo diffondere le informazioni, ma anche farle proprie. Sempre più giovani ragazzi e ragazze hanno oggi accesso ai temi legati alla comunità LGBTQAI+. E questo diventa un moneto per capire, esplorare e costruire una propria identità, con consapevolezza.

L’impatto dei social sui giovani, in tal senso, è stato importantissimo. I social hanno permesso di definire la “subcultura” LGBTQAI+ tra le nuove generazioni, che avvertono questo tema come estremamente attuale e urgente. C’è voglia di informarsi e parlarne. Non solo le nuove generazioni stanno maturando una nuova consapevolezza sul tema, ma sentono la causa vicina, è la “loro” causa, in un certo senso: sono sempre più attenti e attente al linguaggio inclusivo, al rispetto delle individualità, al tema dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e della salute mentale. Inoltre, molti ragazzi e molte ragazze della comunità LGBTQAI+ hanno oggi finalmente la possibilità di accedere a informazioni che riguardano proprio loro: dispongono di nuovi termini per definirsi, autodeterminarsi e conoscersi, trovando il loro ruolo all’interno della società. E queste nuove possibilità hanno un impatto decisivo sulla loro serenità: si sentono meno solə, più compresə.

La percezione e la costruzione del mondo che ci circonda passa attraverso le modalità con le quali lo raccontiamo perché il mezzo è il messaggio, concordando con McLuhan, e nella forma c’è l’essenza delle cose, scomodando Pirandello. Come vengono rappresentante le persone LGBTQAI+ nei nuovi media?

Negli ultimi anni, rispetto alla tematica transgender, e più in generale rispetto alla comunità LGBTQAI+, ha preso piede una narrazione generalista che definirei “del dolore”. Le persone trans*, o non etero, sono sempre più rappresentate nei media, basti pensare ai molti film e alle serie tv sulle piattaforme streaming, destinate ad un pubblico molto diverso. Molto spesso, però, i personaggi queer vengono rappresentati come sofferenti, tristi, problematici e irrisolti, di cui si deve aver pietà: il percorso di transizione è rappresentato come sempre ed esclusivamente come doloroso, il coming out come difficile, spesso i personaggi soffrono di problemi legati alla salute mentale, sono vittime di violenza, vivono situazioni di forte disagio e talora degrado. Questa è, in molti casi e purtroppo, la realtà di molti giovani ragazzi e giovani ragazze della comunità LGBTQAI+, ed è giusto raccontare le loro storie. D’altro canto, ci sono anche tante altre storie positive, di percorsi sereni e ragazzi o ragazze felici, che trovano la loro strada e sono sostenuti o sostenute dalle persone che hanno accanto. Sarebbe bello raccontare anche queste storie, dare un messaggio di speranza alle persone giovani. Dire loro: puoi essere felice anche tu, non dovrai soffrire per forza. Eppure si preferisce sempre una narrazione “pietista”, come se questi percorsi fossero necessariamente accompagnati dalle sofferenze, e le persone LGBTQAI+ rivestissero sempre una posizione subalterna. In altre parole, “se soffri e proviamo pena per te, ti accettiamo più volentieri”. 

Prendiamoci la nostra voce. Come andrebbe raccontata la comunità LGBTQAI+, oggi?

Dobbiamo decostruire la narrazione attuale, prendere voce e raccontare le nostre storie. Le nostre vere storie. Perché ci sono storie tristi ma anche storie felici. Dobbiamo raccontare la felicità e la speranza al fianco delle difficoltà che inevitabilmente si incontrano nel proprio percorso di autoaffermazione. E dobbiamo raccontare che queste difficoltà non sono legate al percorso in sé, o alla propria identità, non sono “colpa nostra”, noi non “meritiamo” il dolore, tantomeno la pietà. Il problema non è essere trans*, o non etero. Il problema è una società che non dispone di strumenti e che mette in atto una discriminazione sistemica.

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